giovedì 25 ottobre 2012

Il Vino dell'Alluvione!



                           

Quattro giorni fa la ferita liquida si è, finalmente, rimarginata. Nel novembre del 2010 in più di cento comuni veneti le strade erano diventate navigabili, le case e le aziende di un uniforme color fango. Nelle colline veronesi un muro d’acqua alto fino a due metri, formato dai fiumi Alpone a Tramigna, aveva invaso 500 dei 7.000 ettari dei vigneti del Soave, vino dalla doppia anima, popolare (60 milioni di bottiglie prodotte) e di qualità superiore.

Tra le più colpite c’era la cantina di Roberto Anselmi, vignaiolo combattivo, con forza schierato dalla parte della qualità. Subì un milione di danni. Ora, 550 giorni dopo, la Regione gli ha inviato la parte più consistente del risarcimento: se tutto filerà liscio incasserà la metà di quanto ha speso. «Si è chiuso il cerchio, è stata una lezione di vita», racconta Anselmi. Che sembra aver trovato un pacato equilibrio in grado di tenerlo lontano da piccole e grandi avversità. La cantina è rinata e lui ha il cuore felice mentre racconta la sua seconda vita, con un amico al fianco e una buona tavola imbandita che l’aspetta. Quasi abitasse nella parte giusta del mondo tolstojano di «Resurrezione», rinnegando quelli che non smettono «d’ingannare e tormentare se stessi e gli altri come se la cosa più sacra e importante non fosse quella mattinata di primavera».

Il novembre di due anni fa è stato cupo e doloroso. Migliaia di bottiglie sott’acqua, interi carichi pronti per l’estero danneggiati, le macchine più tecnologiche inservibili, la contabilità perduta assieme alla memoria dei computer. Il fiume come un nemico, come nelle altre alluvioni che hanno lacerato il Veneto. Quella del 1951, con la piena del Po: «L’acqua porta via i nostri milioni. Eccoli che passano: vacche morte, ricchezza perduta. Siamo proprio una falusca, anzi, meno, e una alluvioncella ci riduce a schiavi della natura, o una folata di nebbia ci fa scomparire per sempre», scrisse Cesare Zavattini pensando agli argini rotti. O quella del 1966, con quelle «onde alte come palazzi di tre piani», l’«Acqua granda» su Venezia, raccontata da Roberto Bianchin.


Novembre 2010

A Monteforte d’Alpone, mentre la campagna si allagava, l’intera comunità si è mobilitata con trattori e ruspe. Anselmi, con il suo elicottero, ha fatto rovesciare 700 tonnellate di pietre sulla falla che si era aperta nel fiume, riuscendo così a limitare i danni per molti, ma non per la sua azienda. «I serbatoi del vino, riempiti con l’azoto, sono stati trascinati via. Ci sono voluti giorni per entrare, poi abbiamo ricominciato. Abbiamo pulito le bottiglie una ad una con gli ultrasuoni, senza strofinare, rimuovendo il fango. Le etichette sono rimaste un po’ opache, qualcuno le colleziona. Poi abbiamo raccolto i dati per rifare la mappa degli affari. Ci siamo rimessi in piedi».


La cantina rinata

E, piano piano, qualcosa è cambiato in Anselmi. «Vedere la distruzione del lavoro di una vita mi ha insegnato a ripartire, anche quando credevo di essere ormai arrivato, di essere entrato a far parte della baronia. In molti ci hanno aiutato, i clienti hanno comprato di più, i fornitori hanno avuto pazienza. Abbiamo costruito nuovi rapporti, altri sono stati rafforzati. Siamo gente laboriosa, ma solo ora possiamo considerare l’alluvione un capitolo chiuso».



I vini di Anselmi stanno vivendo così una nuova stagione. Anche quello meno costoso (8 euro), il San Vincenzo, si trova nei ristoranti stellati, come all’Antica Osteria Cera di Campagna Lupia (Venezia), dove si accompagna con i Colori del mare, sfilata di 12 imperdibili elaborazioni di pesce crudo. Il San Vincenzo è fresco e longevo. Gli altri cru sono il Capitel Foscarino e il Capitel Croci, qualche euro più cari, e poi il Passito I Capitelli (30 euro), il pluri-premiato. Il vitigno principale è la Garganega. Anselmi ci ha creduto al punto da chiudere l’azienda paterna che vendeva milioni di bottiglie, comprando terreni sulle colline e riducendo la resa per ettaro per cercare nuovi profumi. Ha fatto spazio all’innovazione tecnologica, vinificando in atmosfera satura di azoto.

Dodici anni fa, una scelta che ha fatto rumore: la rinuncia alla Doc, in contrasto con regole troppo permissive. «Mi hanno accusato di essere un irrispettoso ribelle, ma con gli anni molti mi hanno dato ragione — dice Anselmi — avevo chiesto una rivoluzione vinicola, cominciando a far crescere solo tre grappoli per pianta per differenziare il vino migliore da quello del marketing. Se qualcuno assaggia il mio vino non mi basta che dica che è buono, vorrei sentirlo esclamare uno stupito “wow!”». Un «wow!» per dimenticare il Veneto delle alluvioni descritte da Toni Cibotto, quando «i tetti delle case erano isole che spuntavano nella nebbia».

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